Camminiamo in una specie di tundra siberiana grandiosa che sembra non aver mai fine, bassi cespugli niente alberi, non c’è neve seppure i colori del cielo e della vegetazione siano quelli della neve del freddo dell’infinito inverno dei ricordi della mia infanzia in una montagna tanto desertica che la chiamano il Gran Sasso…
Camminiamo, siamo una mezza dozzina di persone ognuna per conto suo cammina velocemente, senza correre, vestite malamente, lunghi cappotti, mantellaci che sembrano quelli dei barboni, il silenzio surreale è ora rotto dalle parole di un uomo che mi si avvicina da sinistra e mi dice, abbiamo solo due ore di vantaggio poi ci raggiungono. Non so chi siano gl’inseguitori né perché c’inseguano, quello ch’è chiaro, le parole non dette che pur risuonano implacabili come le campane di Hemingway è che non possiamo assolutamente permettere che ci raggiungano, che ci piglino, sarebbe terribile. È tanto fredda la tundra che il brivido gelato che mi si arrampica per la schiena quasi non lo sento non mi da freddo né calore né sudore non accelera il battito del mio cuore lontano ma un freddo terrore secco e impalcabile s’impossessa di me mentre penso pensieri senza speranza. Camminiamo non c’è altra scelta, il cielo invernale è grigiazzurro ed infinito, le nuvole grigie scure ed enormi si muovono senza meta nel cielo infinito, c’è vento lassù che muove le nubi, l’aria è immobile qui, aria congelata e sola schiacciata dal peso del suo stesso freddo contro una terra gelida scricchiolante sotto i nostri vecchi scarponi rotti che spezzano duri fili d’erba del colore del ghiaccio sporco.
Lo scenario cambia usciamo da un bosco e la valle si apre ai nostri occhi, gli alberi e le colline non son bagnati direttamente dai raggi del sole, eppur la luce è vivida e sana e limpida e parla di speranza, siamo consapevoli che entrando nella valle saremo al sicuro, ché lì non entreranno mai i nostri maledetti persecutori, ch’è finita la fuga, che siamo salvi …
Mi sveglio nel mio letto nel bel mezzo della notte con la certezza di non potermi riaddormentare, che non vale proprio la pena di rigirarsi fra le lenzuola sino a inzupparle di sudore, ch’è meglio alzarsi e mettersi al lavoro. Lo stomaco mio urla di vuoto e di crampi, non ho cenato ier sera per troppo lavorare e mi s’è fatto tardi persino per andare a vedere Nancy come le avevo annunciato, chissà se mi ha aspettato, aveva detto che dopo del lavoro aveva da fare però chissà potrebbe sempre avermi atteso anche solo per vedere che io ero lì a salutarla a darle quel bacio nella pelle vellutata del suo collo di principessa amazzonica e sentire la pressione erotica del suo seno contro il mio stomaco che seppur tanto vuoto non è in grado ora di accoglier nulla strizzato com’è dall’ansia di tanto fuggire. Accendo il portatile e mi metto a tradurre una poesia di 15 anni fa nella quale raccontavo d’una esperienza di 10 anni prima, uno dei peggiori viaggi della mia vita, che strana questa parola “peggio”, mentre il “meglio” va via lavato dalle onde del tempo, tanto buono è il meglio che si dissolve nel mare eterno del gozzo universale, il peggio no sta lì fissato inchiodato nuda visione di me che alimento il fuoco con dei legni che sono le mie stesse ossa che devo spezzare ed emettono un suono terribile di ossa rotte e quando le metto nelle fiamme che abbisogniamo per vivere per vederci di notte per riscaldarci per cucinare, quando vi bruciano puzzano di cadavere di morti di pire funerarie sulle rive del fiume Gange, di quelle dei poveri che non hanno legna di sandalo da bruciare a profumare la miseria dei loro corpi fatti di sangue bava ed escrementi, quelle dei poveri cui così poca legna passa il governo che il fuoco non li consuma del tutto e alla mattina ci sono cani a contendersi ringhiosi un pezzo di gamba un orecchio e si fan pescatori i cani rognosi e colle loro zampe scheletriche tirano fuori dal fiume sacro una mano un braccio di povero che son portati dalla corrente con vacche intere e corpicini di neonati, esseri così puri secondo loro che non devi nemmeno bruciarli e così come morirono li buttano nel fiume, la Grande Madre.
E quando infine viene l’alba incontra tutti intorno al fuoco a cantare tristi canzoni reggae che sembrano blues per quanto son tristi e ondeggiano tutti colle loro chitarre ed i tamburi le teste i corpi dondolanti al ritmo delle onde dell’oceano lì di fronte ed al ritmo della musica triste chiedono a dio di proteggerli e sembrano tanti condannati alla felicità convinti come sono d’aver vinto la scommessa contro quegli altri che pensavano che il sole non sarebbe tornato più e non sanno che se è sorta un’altra alba è solo perché bruciammo le nostre stesse ossa nel fuoco ripetendo ancora l’antico eterno sacrificio di Nanahuatzin che si ripete ogni giorno a tutte le latitudini con qualsiasi colore della pelle che abbiano gli umani, differenti i colori di pelli e capelli la stessa puzza quando bruciano… e, ecco il vero orrore! quando tiro su per il naso la polvere degli angeli che sempre mi ha dato tanto piacere, ebbene, orrore! oggi è carne liofilizzata quella che mi s’infila su su su fino al cervello son ceneri di pire funerarie è la polvere delle mie stesse ossa che la notte bruciammo nel fuoco e sa di carne di sudore di sangue… non c’è più droga non c’è più bellezza… o forse la bellezza è solo quest’eterno riciclo di sangue e sperma e merda.
Son stanco di un programma ribelle del cazzo nel computer che già avevo domato un’altra volta ma non ricordo come e m’ha fatto venire mal di testa e sfinimento e che bello mi si chiudono l’occhi e posso dormire ancora prima che sorga il sole e mi butto a letto e mi copro la faccia col cuscino che al sole non gliene frega niente se io lo voglia o no e si prepara a sorgere implacabile un’altra volta ancora e gli uccelli canteranno che mi svegli io vivo o morto, o voglia dormire chissà fino a quando.
Esco da un cinema nella città ove son cresciuto, già distrutta dal terremoto e invasa in questi giorni da avvoltoi che si aggirano a Gruppi di 8 e di 5 che si vogliono unire per fare 13, ma qui continua ad esser uguale com’era prima del terremoto e degli avvoltoi e ora esco dal Cinema Massimo colle sue colonne di marmo quadrate in istile fascista dove da piccoli appiccicavamo biglietti del cinema chiesti a quelli che uscivano dallo spettacolo ben bagnati nelle nostre bocche con saliva adolescente per vedere s’era vera la leggenda metropolitana che vi appariva una filigrana di donna nuda e c’era chi la vedeva e chi no ed io sì io l’ho vista, anche se una volta sola. Esco dal cinema e cammino rasente le colonne come per nascondermi affinché non mi si veda…
L’HO AVVELENATA! la signora, un delitto perfetto non possono accusarmi, non ci son prove non ho lasciato tracce, nessuno potrà mai pensare a me, e fino ad ora non sanno nemmeno ch’ella è morta, so solo che l’ho uccisa, ho un’impressione vaga che si tratti di una persona conosciuta e bene, addirittura familiare… potrebbe essere, orrore! la mia stessa madre il mio sangue la mia vita… non lo so non lo posso dire non ricordo ma in ogni caso nessuno lo saprà mai.
Comunque stiano le cose per la prima volta in vita mia ho ucciso un essere umano: il piano omicida si sviluppò da solo nella mia mente rapido di botto tanto chiaro tanto infallibile che non potei non metterlo in pratica non potei non farlo realtà, la perfezione del piano omicida fu tanto esatta che si realizzò sola.
La migliore amica della vittima esce ora dal cinema con una coda di volpe siberiana intorno al suo lungo elegante collo alla Modigliani, il pallore erotico del suo volto è interrotto solamente dal rosso vivo delle sue labbra truccate, i suoi occhi tristi forse già presentono che sarà accusata dell’omicidio, e non avrà alcuna possibilità di difendersi: tutte le prove son contro di lei.
Un movimento dell’anima mi parla di pericolo mentre soffro per lei accusata ingiustamente capro espiatorio della mia colpa assassina e questo è l’unico vero rischio ché se soffro per lei potrei tradirmi… una vita di menzogne mi attende di silenzi e solitudine, qualsiasi parola io pronunci potrebbe lasciar cadere un indizio: son io il mio nemico. Il traditore la spia col quale mi tocca d’ora in poi convivere per sempre un’interminabile vita di sospetti, guardarmi le spalle di notte, ascoltare i muri confessare con la mia stessa voce…
Non posso, non reggo prendo un bus che ora sale le svolte di una strada persa nell’Himalaya valli a picco senza fondo ponti sospesi su fiumi impetuosi cupole di templi d’oro sangue di polli sacrificati scorre per i vicoli dei villaggi montani signore che rimproverano a gran voce turisti francesi farmacie deserte italiani travestiti da indiani indiani travestiti da italiani mercatini che invadono il mondo che è sempre stato un grande mercato a cielo aperto avidità nell’occhi neri freddo dell’anima nell’occhi azzurri… potrebbe qualcuno sospettare che partii perch’ero colpevole?
Cammino in una città del primo mondo, il primo ad andarsene a puttane naturalmente, mi guardo dietro le spalle, nessuno mi segue, ma potrebbe essere, meglio guardare ancora, con calma e circospezione però che nessuno possa accorgersi che mi controllo le spalle, che abbia timore di qualcosa, meglio non destar sospetti, meglio comportarsi normalmente.
Sudo sudo e mi vien voglia, qui all’angolo c’è una cassa, non so come né perché ma conosco quella cassa, sembra un carretto da venditore ambulante, e forse lo è stata, ora no, ora sta sempre lì all’angolo, solo alcuni sanno che sotto la ruota destra c’è la chiave per aprire il lucchetto ed aprirla, la cassa, che strano! ai miei tempi non si vendevano così le droghe, c’era il pusher che vendeva, lo pagavi e te la dava, così, semplice come comprar patate… come posson ora fidarsi che tu davvero paghi il giusto e prendi solo quello che paghi?
Son tanti anni che non mi drogo ma oggi sì oggi ne ho voglia, la voglia è più forte di me son rassegnato o meglio risoluto a sangue freddo non me ne frega niente questo voglio ed apro la cassa, metto dentro la mia banconota da 5 e prendo la scatola di fiammiferi quella dei pezzi da 5, ma lì c’e pure il pacchetto di sigarette coi pezzi da 10 e non posso resistere! prendo un pezzo da 10 e chiudo la cassa.
Dev’esserci una qualche forma di controllo! Videosorveglianza! Non può esser così facile questo self-service della droga mi pare un po’ incongruente, di sicuro m’han visto, già mi sanno e sanno del mio furto gli spacciatori, e sa della mia detenzione di sostanze proibite la polizia. Un signore mi prende per il gomito, si tratta d’un vecchietto dagli occhi buoni vuole aiutarmi e mi dice, non andare di là vieni di qua, però no, mi libero dalla sua presa delicata e continuo per la mia strada senza speranza.
La strada è deserta son solo e ben visibile, svolto all’angolo, entro in un supermercato e cammino fra i banconi pieni d’ogni ben del diavolo.
Cazzo! è lo stesso supermercato standa ove da ragazzini passavamo i pomeriggi noiosi di provincia a rubare cibarie che poi nascondevamo dietro la porta laterale della chiesa di Sant’Agostino per poi fare ricche merende in quella piazza orora divenuta famosa in tutto il mondo per la foto in cui si vedono due presidenti del G8 posare di fronte alle rovine di un palazzo che ancora porta la scritta PALAZZO DEL GOVERNO.
E vedo un ragazzino della banda che rubava con me montagne di salsicce e dolci nel primo supermercato che arrivò in città appena vent’anni dopo della guerra quella standa che ora appartiene naturalmente al presidente della foto; il ragazzino sta con sua mamma ma quando lei ci da le spalle e non può vederlo mi dice, è passata la volante ma già è andata via non son entrati qui… sei salvo.
México Tenochtitlan, li 11 luglio 2009
Traduzione a cura dell’autore del 2 agosto 2009