Come bimbi abbandonati su di un pianeta remoto (quando mamma partì verso costellazioni lontane) con quei loro occhi grigiazzurri ed i capelli biondi nascosti dietro cappucci marroni, appaiono gli elfi. Le loro testoline, che spuntano da dietro una gran pietra come spine dal fico d’india, mi guardano stupiti ... come se fossi io quello d'un altro mondo.
Osservandoli dalla campagna i festeggiamenti sono grandiosi. Dalle
prime tenebre un susseguirsi di fuochi pirotecnici ha illuminato il
cielo di mille impennate e cascate di luci i cui riflessi tingono la
bucolica realtà in cui mi trovo di colori strani, titanici. Non
ha risparmiato colle spese l’amministrazione. Anche se
l’epicentro della festa è la città, essa riguarda
l’intero stato: nientedimeno che l’incoronazione del nuovo
re avrà luogo stanotte. La maestosità è
d’obbligo in tali circostanze.
Io sospetto, temo, ma che dico? so: si tratta di una trappola
scellerata, una volta posto con tutti gli onori dovuti al suo rango sul
trono, il re verrà sacrificato. È questa la terribile
legge segreta di queste terre. Non scritta, non pronunciata, ma
inflessibile. Il re dev’esser sacrificato agli dei; ché il
sole deve continuare a sorgere, ed i campi a fruttificare.
La tentazione è forte; in mille subdoli modi ti invitano, ti
offrono la gloria, l’immortalità nella storia, il paradiso
e, non ultimo, un giorno da re, gran re dall’illimitato potere su
uomini e cose; tranne quello di sfuggire al patibolo, anche se di
questo particolare nessuno osa parlare; si sa, ma non si dice.
Il guaio è che questa volta il prescelto sono io.
Quale onore! Re di queste vallate incastonate da alte e verdi montagne,
ricche di nazioni di indomite genti e di una tale varietà di
piante e di minerali unica al mondo.
Io, il re!
Ma non sono d’accordo coll’impronunziabile postilla; non
voglio morire, nemmeno da re.
Per quello sono qui in campagna stanotte, senza nessuna intenzione di
entrare trionfale in città, fra quelle genti esultanti che mi
preparano la festa.
Però, la responsabilità...
Può un re sottrarvisi? No, non può. Il popolo alza
fiducioso lo sguardo a lui e non si può tradirlo.
Così ho deciso di salire in montagna al fine di organizzare la
Resistenza.
Il cammino è arduo, non c’è luna ancora stanotte ad
illuminare i miei passi, ed i riverberi dei fuochi d’artificio
sono traditori e sempre più lontani alle mie spalle, ed in
più sono carico. Avanzo come un mulo lungo quella strada che
sale alle montagne fra boschi secolari e rari campi, fra corsi
d’acqua e nebbie e attraversa piccole città e villaggi dai
nomi ignoti ai più su su fino allo spartiacque donde poi
comincia il declivio verso l’altra costa. Io sono solo
all’inizio del cammino; i rari automezzi che portano i montanari
in ritardo giù alla festa sfrecciano veloci.
Abbandono precipitosamente il ciglio della strada quando un camion
quasi mi travolge, ma lì un canale di scorrimento per le acque
piovane degrada ripido e viscido nell’umidità della notte,
e scivolo colpendone violentemente con il ginocchio il bordo di
cemento. Dolore. Sangue. Quasi non sono più in grado di
rialzarmi e mi vedo costretto ad abbandonare una parte importante del
mio bagaglio: preziosi oggetti, viveri, voluminosi scritti su pesanti
risme di carta frutto del mio lavoro e del generoso intervento della
Musa restano lì, in un canale di scolo; forse la qualità
della cartella di cuoio in cui sono raccolti attrarrà qualcuno
in grado di leggerli, sennò sarà la natura stessa a farne
scempio. La cosa lì per lì non mi tange affatto, il
ginocchio che grida nell’oscurità e lo scorrere copioso
del sangue sulla gamba trattengono la mia attenzione al riprendere
della marcia; decido di abbandonare quella strada così infida,
mi butto per i campi incolti, fra pietre e piante spinose.
Una forza poderosa mi spinge ad arrampicarmi veloce nella notte. Con me
oramai ho solo un sacco a pelo ed una borsa contenente un piccolo
registratore ed alcune cassette, alcune vergini per dettare le mie
eventuali memorie anche quando il buio potrebbe impedirmi di scrivere,
ma anche ottima musica, più pochi altri effetti personali fra
cui occhiali, penne e quaderni.
Uno dopo l’altro i miei piedi macinano tempo e chilometri.
I fuochi fatui di un cimitero in rovina attirano i miei passi verso un
meritato riposo, fumi ambigui si levano fra le lapidi macchiate dai
licheni che le rendono illeggibili; morti senza nome, senza fiori,
senza lumi; chissà se si tratta di vecchi contadini che hanno
vissuto qui osservando il grano crescere con fatica, anno dopo anno,
fino a morire prima dell’ultimo raccolto; o di soldati trascinati
sin quassù sudati e sofferenti per poi cadervi nel nome di
guerre dimenticate.
Una luce più forte mi richiama e mi siedo vicino ad una tomba su
cui aleggia un’enorme sfera di luce verdastra, sinistra ed
aliena, con un punto di luminosità più intensa, seppur
dal colore cupo, quasi un mostruoso occhio al suo centro che pulsa
quando mi parla. O meglio non mi parla, non c’è un suono a
muovere l’aria stagnante del luogo di morte, ma io so quel che
dice: mi considera un ambasciatore umano, chiede la resa, totale ed
incondizionata della nostra razza; come è sempre stato,
aggiunge. Non gli credo, non gli credo e non cedo; non sono il solito
re in ostaggio di forze aliene e predatorie, condannato e felice di
esserlo; il popolo degli uomini non ha mai avuto niente da guadagnare
in questo turpe connubio, son fuori da ogni mercato io, sono qui per
organizzare la resistenza umana, non per svendere la nostra
libertà, se mai ci fu, ma per riconquistarla. Trattiamo.
Minaccia persino l’Ambasciatore ed i suoi cari. Devo lasciare
lì il sacco a pelo per potermene andare.
Camminando di nuovo nella notte sento che il ricordo di quel cimitero e
di ciò che vi avvenne tende a scivolar via dalla mia memoria,
come fa una goccia di un colore seppur intenso una volta che caduta in
acqua e si disperde, si dissolve e, pur essendovi ancora, diviene
invisibile, la sua sostanza un tutt’uno colla trasparenza,
indistinguibile, irrintraciabile; e devo faticare, esprimere a voce
alta la mia ferrea volontà che ciò non avvenga ovvero
l’intento di ricordare, di rimanere a conoscenza
dell’esistenza di costoro, dei loro turpi scopi, delle loro
minacce terribili pur se condite con una specie di miele psicologico,
appiccicosissima melassa, carta moschicida per lo sciame umano. Ci
riesco, ricordo il fatto, ma son cosciente che tante sfumature, ma
anche eventi e messaggi sono andati: importantissimi particolari che
potrebbero essere rivelatori sui punti deboli del nemico, dei suoi
mezzi e dei suoi piani che, in qualità di fatti, potrebbero star
dietro a tutta l’usanza infame dell’incoronazione e del
successivo sacrificio del re, punta di lancia, guida, campione
dell’umanità, ridotto a capro da sgozzare su di un altare
immondo.
Quasi senza rendermene conto sto attraversando un villaggio: case di
pietra scorrono ai miei lati illuminate a stento da qualche lampadina
che tinge di giallo la nebbiolina in un ambiente surreale il cui
silenzio assorbe come una spugna di mare lo scalpiccio dei miei passi
sul selciato.
Un uomo, uscito da chissà dove, mi si affianca e ci salutiamo;
è più basso di me, grassottello, con dei baffetti neri su
di una faccia tondeggiante di cui non riesco a distinguere bene le
fattezze forse a causa della semioscurità... ma io addirittura
dubito della sua stessa realtà!
Eppure l’uomo mi parla: pare sapere di me, della mia
identità e delle mie intenzioni, e continua a parlarmi e a
domandarmi se io sia qui per incontrare il capo; io nego, dico di non
sapere di cosa stia parlando, ma in cuor mio sospetto, da un lato che
sia tutto un sogno, ma dall’altro che abbia incontrato davvero i
partigiani, i mitici partigiani di cui si parla sottovoce, cui mi
volevo unire se non addirittura organizzarli in una resistenza vera e
propria, e che abbia ora l’opportunità unica di incontrare
il loro misteriosissimo capo, un’occasione davvero troppo buona
ed unica da esser buttata via a cuor leggero... ma continuo a negare, a
fare lo gnorri. L’uomo insiste, ed insiste, ed insiste, ed
alfine, quando mi dice che il capo sta aspettando proprio qui in questo
villaggio di incontrarmi stanotte, acconsento. Mi guida nel dedalo dei
vicoli bui fra le case silenti, avanziamo nella notte come spettri in
un villaggio fantasma, il suo continuo parlare non turba
l’immobilità né crea l’impressione dello
scorrere del tempo, il nostro passaggio non allarma i rari gatti,
scheletrici, a caccia nelle tenebre. Di fronte ad un palazzo imponente,
che si erge unico fra le casupole di pietra, si ferma e mi fa cenno di
entrare in un ampio portone che si apre fra stipiti di marmo
intarsiati; io temporeggio, incerto mi guardo intorno: non
v’è nessuno di guardia né alcun segno di
attività militare, il silenzio regna sovrano ed inquietante,
l’oscurità è pesta, continuo a non voler entrare
per primo; l’uomo comprende e mi fa strada.
Entriamo in un ampio cortile illuminato per metà dalla luna che
oramai è nel cielo, la linea d'ombra taglia perfettamente in
diagonale il suo pavimento quadrato: al di qua ci sono io, in piena
luce, e, dietro di me, il mio misterioso accompagnatore, poi l'ampia
porta da cui siamo testé passati. Al di là,
l’ombra, ed in essa c'è un uomo, seduto su di una sedia, o
poltrona, a braccioli, le sue fattezze celate dalle tenebre.
- Avanti, prego, fatti vedere. – dice con una calda voce,
profonda, invitante ed autorevole. - e così mi volevi conoscere?
–
- Veramente è stato il signore a portarmi qui. – ( a me
è sembrato un invito) rispondo facendo un passo avanti. Temo. La
situazione è pericolosa. Chi sono costoro? Sono veramente i
mitici partigiani, o solo degli impostori, magari ladri di strada o
banditi della montagna? (o demoni della notte?) Ma anche se fossero
loro, i ribelli di cui si comincia da un po' di tempo a parlare anche
ad alta voce, chi mi assicura che essi siano amichevoli nei miei
confronti e, cosa possono volere da me?
Temo, ma l'occasione è unica: un contatto diretto! addirittura
col loro capo, di cui non si conosce il volto; forse potermi unire a
loro, io! da sempre ribelle, esule, inseguito dalla rivoluzione nella
mia stessa esistenza, e dalla politica del big game nel mondo, o almeno
in tutti i paesi dei tre continenti in cui ho vissuto, vagando, senza
mai integrarmi, né volendolo mai fare, sempre imboscato, spesso
clandestino, sempre antagonista, troppe volte perdente, prigioniero,
umiliato... senza che mai si spegnesse nel mio cuore la viva fiamma
della libertà. Forse costoro hanno le armi, non solo i
fucili ma la forza politica per lottare di nuovo, colla speranza
della vittoria.
Temo, ma non penso a tutto ciò, è la curiosità di
vedere in volto il capo, il generale del popolo, che respinge le mie
paure e spinge le mie gambe a fare altri passi avanti.
- Vieni, vieni avanti, così che possa vederti in volto –
dice lui, ribaltando il mio pensiero.
Cammino più tranquillo ora, avvicinandomi al centro del patio,
dov'è una struttura molto bella, antica, pare un arco di quelli
che di solito sono costruiti sopra ad un pozzo, col ferro battuto che
accenna spirali avvolgendosi in numerose decorazioni, il tutto allo
scopo di sostenere l'anello a cui suole attaccarsi il secchio per
tirare su l'acqua.
Ma il pozzo sotto non c'è; forse è stato chiuso, o
chissà; c'è un cerchio sul pavimento al suo posto, la cui
circonferenza è tagliata esattamente a metà dalla linea
d'ombra, trovandosi al centro del vetusto patio.
- Sì, fermati lì che possa vederti bene. – La voce
del capo, indiscutibile, mi ferma proprio lì nel falso pozzo, io
ancora in piena luce, cosicché non possa entrare nella zona in
ombra e, forse, vedere le sue fattezze; mi pare che abbia i baffi, o
qualcosa in faccia, e che sia giovane e forte, ma non potrei dirlo con
certezza.
Cazzo! la mia curiosità non si è saziata... e allora...
cosa vogliono da me?
- Orbene, ti vedo – dice lui – Avanti, dimmi, cosa ti ha
spinto sin qui, su queste ripide montagne dimenticate dai più?
Puoi parlare liberamente ora, cosa vuoi da noi? -
Mi si gela il sangue nelle vene, mi sento in trappola, come cosa voglio
io? se mi hanno beccato in mezzo al mio viaggio notturno!
E questa struttura, quest'arco, proprio sulla mia testa, non potrebbe
celare la lama di una ghigliottina?
Alzo lo sguardo a mirare l'oscuro signore negli invisibili occhi e dico:
- Io non voglio nulla. Sono qui sul mio cammino e vi incontro,
null'altro; non ho nulla da chiedervi. Onorato dall'avervi incontrati;
io proseguo, addio!-
E vado via, egli dice qualcosa, risponde al mio saluto, o forse ordina
ai suoi di lasciarmi andare.
E vado via da quel paese deserto tutto illuminato da lampadine, al
più presto, ma senza correre lascio quelle antiche case e la
guerriglia al loro destino.
Sono sfuggito alla trappola, solo questo penso ché ancora mi
sento la lama dietro al collo. Vigliaccheria e basta?
Chissà...
É una sensazione di felicità piena di potere quella provo
camminando in una rada macchia di grandi alberi. Anche se non
c’è più la luna, ci si vede benissimo, il verde
delle foglie brilla di vita nel mare nero della notte.
Sono io che comincio a parlare...
Agli alberi ed a me stesso dico, entusiasta, che la luce è solo
la nostra, ed è tanta.
È vero, indubbiamente è buio pesto, ma io ci vedo
benissimo, non è luce nel senso consueto, non dà ombra,
ma questo è solo l’aspetto più materiale; il fatto
è il vederci perfettamente, nell’oscurità.
Credo che siano gli alberi a rischiarare la scena, ed io comincio a
dirglielo, a gridarglielo, forse disturbando la loro secolare quiete
silenziosa.
Tant’è, li risveglio, o risveglio il mio udito.
Cominciano a rispondermi, e sono tanti.
Chiacchieriamo come vecchi amici, di getto, sono tante le cose che
abbiamo da dirci, come due separati in casa per anni che di colpo
rompono le dighe, ed a fiumi, a cascate riprende il dialogo; traboccano
e schizzano via le parole come infinite gocce quando il loro impeto si
scontra colle nere rocce della montagna, silenti.
Dev’essere il crucciarsi, ribollente sotto il pelo della mia
coscienza, ma gli alberi vogliono informazioni, pettegolezzi veri e
propri su tutti i miei amici giù in città; forse li
conoscono a distanza, quei pochi chilometri che ci separano dalle loro
case; ma no, sanno bene anche delle persone lontane, al di là
del mare.
Ovvero già sanno, ma in un altro modo. Le ultime, gli
accadimenti e il come la gente li affrontò: è questo che
bramano di sapere.
Mi fanno tenerezza, come vecchie signore isolate dall’età
e dalla vita, che si fanno sotto pur di sapere tutto, persino che
colore di smalto per unghie portava quella, quel giorno lì,
proprio quand’è successo il fattaccio con
quell’altro.
Ed io giù a spassarmela, a raccontar loro, a ridere con loro.
Si dice che il tempo degli alberi sia molto lento, rispetto al nostro,
e dev’essere senz’altro vero, specie per quegli alberi che
vedono generazioni umane nascere affannarsi e morire sotto le loro
ampie fronde; che però muoiono ogni anno, e rinascono a
primavera. Nel loro grande ciclo vitale vivono cicli molto più
brevi, ed intensi dei nostri; o chissà che, ma quello che scopro
è che possono parlare ad una velocità pazzesca, a noi
sconosciuta. E giù tutti insieme, ma ognuno colla sua voce
propria e le sue domande ed osservazioni, mi intervistano parlando
più rapidi del miglior commentatore sportivo radiofonico.
- Non parlate tutti insieme, almeno! Uno alla volta! Ma che cazzo, non
ce la faccio a starvi dietro-
Ma continuano imperterriti ed impertinenti, anzi forse si agitano
ancora di più, temendo che li lasci senza aver loro detto tutto.
E tutto è notoriamente infinito.
Il brusio sale... nella mia testa è un clamore,
un’epifania di cimbali che sembra sempre lì lì per
raggiungere il suo apice, ma non lo raggiunge mai. Mi pare di
esplodere, e mi incazzo pure:
- Basta, co’ voi non ci parlo più. –
La notte riacquista il suo silenzio, rotto solo dallo scalpicciare dei
miei passi che si allontanano.
D’un tratto è lì, alla mia sinistra, con quel suo
strascico di ragnatele luminose, elegantissima, buia, avvolta di
mistero, Nostra Signora la Morte cammina silenziosa al mio fianco.
Nelle sue fattezze c’è anche mia mamma, dipartita da molte
lune, ma so che non è mamma, o sì, la Madre Notte, la
Doganiera, che a tutti tende le sue braccia.
Il sentimento è forte, amore, riconoscenza, rispetto; ma ella
continua a seguirmi, elettrizzato, io, oscura, lei, vortice di
buio nel buio; non trascina catene, come dicono, ma fili di ragnatela
fatti di una luce bianchissima, ma incredibilmente vecchia, e che non
fanno alcun rumore.
Né la sua voce, fisica né mentale, fu dato sentire. Non
ha bisogno di parlare, Lei.
Quando arriva il suo scopo è unico e chiaro. Non ha bisogno di
chiederti né comunicarti nulla. Ti prende e basta.
Ma quei benedetti momenti incantati in cui la vidi e passeggiai con lei
mi dettero il tempo e l’occasione di capire, ed agire:
- Con tutto il rispetto, Mia Signora, si è sbagliata. – le
dissi perorando la mia causa ad alta voce – Non sono io, non
é il mio momento, io ho ancora da fare a questo mondo. La mia missione è l'essere uno sciamano, ma ancora non la realizzo appieno... –
La sua sola presenza lì, imperiale,
imperturbabile, soave, terribilmente reale, tirò fuori da dentro
di me le ragioni (quelle vere, ché non c’è verso di
barare colla Falciatrice) per cui mi sono concessi oggi i tempi
supplementari.
il Bardo Rodol, a cavallo fra due millenni RACCONTO-VERITÀ: SUCCESSO A IXTLÁN, OAXACA, MESSICO, NATALE 1998