MEMORY TEST
(da leggersi ascoltando Shine on You Crazy Diamond dei Pink
Floyd)
Solo e vuoto all’imbrunire lo
svegliò quel vento freddo del nord che sapeva di neve.
Egli era lì semi accartocciato scomodo
scomodissimo con quelle pietre che gli dolevano sul fianco sinistro non
riusciva bene a respirare, DON DODON DOON e quei tamburi lontani nella
sua testa. Si rialza o meglio prova a rialzarsi e non ci riesce fatica
riprova, gli duole la testa e lo stomaco è sottosopra, e
l’odore è strano.
Egli insiste cammina a quattro zampe si tira su
pericolante in quella montagna di monnezza in cui si è svegliato
stasera e si guarda intorno, pietre rottami, una tv semi vecchia
buttata lì tra una montagna di pannolini maleodoranti una rete
sfondata dei pezzi di palo varie buste piene di chissà quali
orrori uno specchio ovvero lo sportellino di un mobiletto da bagno
stracciato via ed abbandonato lì, intorno altra mondezza.
Egli prende lo specchio e non riconosce quel volto
che lo guarda dal di là del vetro imbrunito, quegli occhi neri
profondi quei capelli duri la barba lunga e quell’espressione
assurda, chi sei? Ma io chi sono? Guarda indietro al suo passato e non
c’è nulla, è come una pressione alla testa ma che
parte da dentro ove l’enormità del vuoto preme contro le
pareti interne del suo cranio che non scoppia solo perché
è mantenuto dalla pressione esterna di una realtà che
riempie lo scenario di storia, tutta quella mondezza lì
c’è arrivata dopo una vita di uso e prima ancora qualcuno
l’aveva costruita, c’era un pezzo di storia del mondo in
ognuno di quei rifiuti che dilagavano lì intorno. Ma la sua di
storia no. Non c’era non c’era storia. Egli si sentiva
vuoto come una brocca alla fine della festa senza più vino senza
più colore senza più niente…
Il dolore per gli spigoli di quella tv su cui si
era risvegliato con una gamba in mezzo ai pannolini zozzi e puzzolenti,
quel dolore che il vento richiamò ad urlare ora già non
c’era più. Egli si sentiva leggero e vuoto e quel suo
camminare che era un brancolare sperso nel buio di un mondo in cui per
lui non c’era storia, quel suo avanzare senza saper dove andare
forse evitando solo le trappole della discarica abusiva ebbene quel suo
andare da demente aveva tutta l’eleganza e la solennità
della sua marcia nell’ignoto, quasi una danza tanto era la
leggiadria dei suoi movimenti, la grazia del vuoto.
Egli andava incontro al suo passato sperando di
ritrovarlo dietro quella lavatrice arruginita o di leggere qualche
notizia che lo riguardasse in quella montagna di giornali umidi.
Un uccello fuggì al suo incedere, gracchiando
il corvo manifestò la sua contrarietà alla follia umana
Egli cercava il suo passato perché senza di
esso non aveva futuro, il mondo lì fuori, quello dei produttori
di rifiuti, mi trova anche a me nei rifiuti, usato svuotato,
contenitore vuoto di una vita che non c’è, presente eterno
di un rottame nella discarica, il tempo si era dileguato con il suo
passato con la sua memoria.
Stanco di cercarla fra i rifiuti stanco di
quell’odore pungente e del gracchiare dei corvi Egli uscì
fuori da quell’avvallamento infame e si ritrovò sotto gli
alberi, in una pinetina e poi c’era il mare e gli stabilimenti e
dallo stabilimento più vicino colle luci già accese nella
penombra serale quella in cui meno ci si vede, attraverso l’aria
tremula carica di umidità un suono una nota la lunghissima nota
di una chitarra gli vibrò dentro il corpo e le altre che la
seguirono dopo quella prima che era stata cristallizzata ferma
nell’aria come un fulmine che non cade come una pioggia di
diamanti sospesa nel cielo fuori dal tempo, le altre note quelle
più alte che seguivano il noto assolo di chitarra esplosero nei
suoi polpacci con la prepotenza di chi torna a prender possesso del
suo, risuonavano nei suoi polpacci risuonavano in quella voglia di
correre che gli prese, risuonavano da una zona di quel mare nero della
sua vita una zona dove sembrava non esserci nulla eppure era lì
quella musica soave che pareva chiamarlo da dentro da dentro le sue
gambe che corrono in spiaggia che avevano la loro casa lì dentro
di sé ove avrebbe dovuto trovarsi solo il nulla, quella faccia
sconosciuta allo specchio, quegli occhi.
Il fatto che avesse una conoscenza delle cose, che
sapesse cos’era uno specchio e cos’era una pineta o una
discarica o addirittura tutta la storia, la filiera di ogni oggetto
rotto della discarica sino al suo produttore alle materie prime alla
geografia, la consapevolezza, tutto sapeva ma era tutto normale, quello
era il mondo esterno l’unica cosa reale, lui lì invece era
il fantasma, lui non aveva la realtà del vissuto a riempirlo,
lui era vuoto e stonato.
Ed ora invece quella musica gli suonava dentro, da
dentro le note si rincorrevano per tutto il suo corpo ed ove toccavano
c’era la sensazione viva di un passato lì dietro a
fremere, sì questa mano ha accarezzato! questa mano ricorda la
sua pelle, il vellutato accesso ad un altro buco nero, ad
un’altra storia un altro mondo che sconosciuto pulsa nei suoi
polpastrelli che ricercano nell’aria le gote di lei, lei
chi?
Ogni nota è come un piano di
un’ascensore che scende profondo in questa ragazza, un viaggio,
un assaggio appena della meraviglia di essere femmina, del colore che
hanno i colori visti dagli occhi di una donna.
Da quegli occhi Egli si vede lì davanti a lei
così vicino che la accarezza e quella faccia sua stavolta non
gli è estranea, è la sua. Lei, lei la ragazza lo conosce,
lo riconosce e lo guarda con affetto e questa nota, questo giro del
basso gli corron su per la parte dietro del corpo e gli creano
una spina dorsale, già non più smidollato invertebrato
delle discariche.
Come un fluido rosa lo pervase quando ascoltò
l’organo, una specie di richiamo in diretta dal paradiso e le
storie di mille giovani traboccavano da quell’organo, giovani che
camminavano con dei sacchi a peli, liti in famiglia, fughe, freddo,
risate, prova questo è un pink floyd e poi domani però mi
dici, e la vista di tutte quelle storie di tutti quei giovani, e
lì, lì in mezzo a quel gruppetto c’era lui, seduto
su quella coperta a scacchi era morbida quella coperta come quel
timbro, quel suono che gli ha corso nei nervi nelle cellule per tutta
la vita che è stato uno degli alimentatori del suo sogno del
loro sogno del sogno di tutti del nostro sogno del mio sogno!
Egli si accorse che aveva un sogno, che la sua vita
le sue storie i suoi avvenimenti che ora non ricordava che non gli
interessavano più perché lui ora era dietro le quinte,
era nella matrice di quegli eventi, era nel sogno che li aveva
sostenuti creati causati prodotti, era il mito, era nel mito ed era il
mito almeno di se stesso di quell’io che ha scelto di non
ricordare e che invece ora quest’arpeggio infernale nella sua
dolce perfezione lo stravolge tutto e lo spolvera e respira ne
più nè meno che la colonna sonora di una
generazione, ancor più l’impalcatura delle sue emozioni.
Uno stacco ed ora è lei ad accarezzarlo le sue mani pulsano come
quella batteria che è il suo cuore che vibra sotto la di lei
pelle ed accompagna di tamburi il tocco della sua mano che scorre come
il suono dei piatti, piccolo brivido che riaccende il suo volto che lo
ravviva al ricordo di lei di come con questa musica si incontrarono i
loro sguardi a quel concerto e quelle carezze, quel sax che
cantò nei loro corpi.
E lei lo chiama, Fortunato!
A Dino Rosa
Rodolfo de Matteis 2007