L'uomo era disperato.
Vedeva ancora puntati su di sè gli occhi dei figli piccoli,
pieni di lacrime, di fame e di paura quando lui, dopo aver
violentemente battuto la moglie e la figlia grande, aveva preso la sua
giacca e la via della porta.
Camminava per il monte, la notte all'aperto era stata fredda, ma ora,
quando ancora non apparivano le prime luci dell'alba, stava per
raggiungere la Vecchia Miniera, e vi sarebbe entrato.
I minatori erano venuti, scavato un dedalo di gallerie nella roccia, e
poi erano andati via.
Come gli occhi scuri di un mondo di sotto, le mine ti guardano
inquietanti.
Non c'era più niente da estrarre, si diceva, ai prezzi di oggi.
Ma l'oro c'era, lui lo poteva sniffare, vedendolo trasudare dalle
rocce, evaporare dalla terra che avvolgeva in tenui vapori luminosi,
invisibili ai più.
Ci dovevano essere pure, nascosti da qualche parte i tesori accumulati
dai minatori in rivolta, prima di essere stati tutti barbaramente
trucidati. Nessuno li aveva mai trovati.
Chissà, quello che allora era un tesoro che valeva la pena di
far cercare da spedizioni di sporchi soldati, al giorno d'oggi, anche
una sua piccola parte, creerebbe una fortuna indicibile.
Non aveva altra scelta, l'uomo, doveva trovare qualcosa nella miniera.
Solo la Terra poteva fargli questo regalo. I suoi simili già lo
avevano escluso, non aveva amici, né più ora una
famiglia, li aveva abbandonati per sempre. La moglie, così
dolce, così carina, aveva preso il controllo della sua esistenza
costringendolo a svolgere le mansioni più umili o le più
pericolose, per un tozzo di pane. Aveva vissuto come uno schiavo solo
per sfamare lei e quella nidiata di bambini che aveva partorito! Nei
suoi occhi brillava la luce dell'oro.
Non nutriva alcun rimorso l’uomo, attento solo a non inciampare
nei sassi alla difficile luce dell’orizzonte che schiariva
appena. Voleva entrare prima che i suoi occhi si abituassero alla luce
del giorno, e così risparmiare il più possibile del
preziosissimo gas che avrebbe illuminato il suo procedere nei cunicoli.
Aveva solo questo con sè: la lampada, un piccone ed una bisaccia
quando entrò nella Vecchia Miniera.
Riparato dai venti che annunziano il sorgere del sole, sentiva
più caldo di prima fuori ora al riparo delle accoglienti viscere
della terra.
Odore di terra, di minerali, di oro, profondi come le gallerie da cui
fluivano ed in cui andava inoltrandosi, potenti aromi lo attiravano
sempre più giù, più dentro, più
all’oscuro, più fuori dal tempo, fuori dal mondo stesso
seppur, inspiegabilmente, dentro di esso.
Procedeva con cautela, camminando fra massi caduti, travi, montagnole
di pietre. La febbre dell'oro lo aveva già in suo potere e non
si rendeva nemmeno conto delle ore che passavano.
Aveva deciso che non sarebbe uscito di lì a mani vuote.
Doveva essere oramai notte, fuori, quando, bestemmiando, si sedette a
riposare lì, spegnendo la lanterna, in un budello sotterraneo
scavato da schiere d’uomini trasudanti piombo, chissà
quanti secoli or sono.
- Dove cazzo sono i vostri tesori? Dove il filone d'oro? Che cazzo ci
fate adesso, morti di fatica, morti schiavi, coi vostri dobloni? Tutto
va via; e voi lì a tenervi stretti il malloppo di un mondo che
vi ha sbattuti fuori, cancellati, per sempre... eccheccazzo, non
é giusto! –
Asciugandosi il sudore dalla fronte colla sua camicia sporca e a
brandelli, l'uomo non si dava pace.
- Pace, avete la pace eterna, e non vi basta? L'ha detto il
Signoregesúcristo che da morti si é tutti uguali, ricchi
e poveri, e allora? O forse siete riusciti a mettervi d'accordo co'
Belzebú, e vi pagate una permanenza migliore all'inferno?
Allora, vedete, ho ragione io: non posso proprio morire povero!
- E fermi voi, maleddetti topi! – gridò
nell'oscurità, all'udire un tramestio.
Il rumore non solo non si interruppe, ma, col passar del tempo,
sembrava assumere una caratteristica ritmica, una ripetitività
troppo regolare per esser frutto dello stupido rovistare nel buio di
topi o pipistrelli, sembrava quasi un lontanissimo passo, uno
strascinarsi, qualcuno in cammino in chissà quali lontanissimi
cunicoli persi nelle profondità della terra, così vicini
all’inferno... l’uomo calmò la sua ira e fece
silenzio, il suo corpo si contrasse, il ventre si appiattì
celando il respiro mentre le sue orecchie scandagliavano l’Averno
come radar.
Un vago chiarore sembrò farsi largo nelle tenebre più
fitte, giallastro; l’uomo che già cercava i fiammiferi per
riaccendere la sua lampada ed andare ad indagare sul rumore
sbatté più volte le palpebre, incredulo, ma, sì,
era la stessa l’origine del rumore e della luminosità,
provenivano dal davanti, dal profondo di una delle gallerie che si
diramavano da quella piazzola, ma la parola pozzo renderebbe meglio
l’idea, ove si era fermato. Non era superstizioso l’uomo,
non credeva agli spiriti come tanti della sua gente; sì era
religioso, a Gesú ed al diavolo credeva anche lui, ma erano cose
dell’altro mondo; che, in questo servivano solo durante
matrimoni, battesimi o funerali, quasi fossero un’autorità
notarile, colla quale poi prendersela se le cose andassero storte,
figure mitiche di un lontano concetto di giustizia, che nulla avevano a
che fare colla sua vita, una continua affannosa, spietata ricerca delle
risorse essenziali in un mondo profondamente ingiusto.
E così l’uomo pensò alla polizia, sapeva bene che era impossibile, che nessuno l’aveva seguito nella notte né potevano immaginare dove fosse, e fra l’altro la direzione da cui continuava ad avanzare incessantemente la luce non era la stessa da cui era arrivato lui, ma si convinse che la moglie lo avesse denunciato e che venissero a prenderlo; scartò subito l’idea di accendere la lampada e fuggire, non avrebbe fatto altro che rivelare la sua presenza, preferiva approfittare del suo vantaggio, strinse la piccozza fra le mani, e muovendosi pianissimo alla tenue luminosità cercò un posto ove nascondersi, pronto a saltare addosso agli sbirri, a farli fuori, se necessario.
Quasi non poteva credere ai suoi occhi: con una strana lampada in mano
un uomo solo si avvicinava lentamente dal cunicolo, non indossava
un’uniforme militare anzi sembrava vestito di pelle, come un
antico esploratore, quasi un clichè del cercatore d’oro
dei tempi andati, aveva lunghi capelli biondi, era uno straniero, ma
dava l’idea di uno di qui, i lineamenti che cominciavano ad
apparire di quella sua faccia affusolata avevano un nonsocché di
familiare, antichi ricordi combattevano per emergere dall’ombra
della sua infanzia, o forse un vecchio film sul generale Custer, o il
vecchietto del far west, chissà dove l’aveva visto, ma il
suo indole mutò, allentò la strettissima presa sul manico
del piccone, le mani quasi gli dolevano per la tensione che lo aveva
attanagliato e che ora stava svanendo; pur non conoscendo il nuovo
venuto né le sue intenzioni non lo vedeva più come una
minaccia, anzi, misteriosamente sembrava volersi fidare di lui.
- Che fai lì dietro? Tranquillo, ti ho visto sai, sono venuto a
cercarti - la voce dello sconosciuto era strana, e sembrava come
infrangersi in mille riverberi sulle pareti della vecchia miniera,
cristallina, metallica, l’uomo non si mosse anzi trattenne il
respiro al sentirsi scoperto.
- Ma dai, è da oggi che so che sei qui, conosco questi budelli
come le mie tasche con tutto il tempo che ho passato quaggiù,
è il mio regno, ed io accolgo bene gli ospiti, aspettavo tanto
qualcuno che potesse aiutarmi, ma non me la sentivo di spifferare il
mio segreto ai quattro venti -
- Segreto? Quale segreto? - roca la voce dell’uomo esplose
dall’oscurità silenziosa.
- L’oro, mio caro amico, l’oro. -
Fece un passo avanti l’uomo e, brandendo il suo piccone,
uscì dall’ombra scrutando lo sconosciuto ed intimandogli :
- Dove? Dov’è l’oro?-
- Tranquillo, abbassa quell’arma, se mi uccidi non lo saprai mai,
non è qui con me... ed è talmente tanto che non potrei
portarlo addosso -
- Dove? - l’uomo tremava e sudava per l’eccitazione mentre
l’altro pareva tranquillissimo, pallido come un morto, ma quanto
tempo aveva passato qui dentro? L’ha trovato, l’ha trovato,
ed io che lo sapevo, e sì, e non devo nemmeno cercarlo, me lo
farò mostrare da questo gonzo e poi si vedrà.
- Talmente tanto di oro, che ti passerà la voglia di uccidermi,
sennò pensi che vorrei dividerlo con te? Io che l’ho
cercato per anni? Ti propongo un patto, una società. Tu mi
aiuti, ci sono travi cadute, pietre troppo grosse per me solo, e poi
bisogna portarlo fuori, tutto quello che si può... ed ognuno il
suo. Eh? ed in futuro se non ci basterà potremo sempre tornare
indietro a prenderne dell’altro. C’è una sola
condizione: nessuno deve sapere! Ma non penso che tu sia così
stupido. -
- Puoi giurarci. -
- Allora andiamo. -
L’uomo raccolse la sua lampada e, senza accenderla,
cominciò a seguire l’altro che incedette con passo veloce
e sicuro. Dopo un bel po’ di cammino lungo quel cunicolo, ne
presero uno laterale, e poi un’altro mentre l’uomo
memorizzava le svolte, sì, si fidava dello sconosciuto, ma
sempre meglio premunirsi.
Camminarono per ore prima che l’uomo domandasse: - Ma dove cazzo
stiamo andando? -
Allora lo sconosciuto si fermò. - Stanco? C’è un
po’ da camminare... mica erano stupidi i minatori -
- Perchè, allora è vera la storia del tesoro? Non
è un filone che stiamo cercando? -
- Ma quale filone? ti pareva che se ci fossero ancora filoni non
avrebbero riaperto la miniera dopo ogni guerra o rivoluzione? -
- L’oro c’è, io lo sento -
- Sì, ci sarà pure, in minima parte in tutta la roccia,
è quello che senti, oppure senti la puzza del tesoro, ce
n’è così tanto di oro... lingotti, monete, pepite
da far brillare tutte le donne della repubblica -
- Il Tesoro -
Durante una sosta si sedettero e l’uomo tirò fuori dalla sua bisaccia pane e cacio, ed una mezza bottiglia di brandy. Stavano bevendo da un pezzo, stanchi della lunga giornata (?) di cammino, quando il vecchio cominciò a raccontare di quando ancora camminava nella prateria, sui monti, nel deserto, di orizzonti infiniti e di innumerevoli stelle nel cielo, e di tempeste improvvise e di trombe d’aria, mulinelli vivi che lo accompagnavano, e lui lì, come padrone unico ed assoluto di un mondo selvaggio di cui conosceva tutti gli abitanti, dai vermi alle aquile... la sua faccia mentre parlava, alla tremula luce della lampada, appariva sempre più magra allungata, pareva dilatarsi nel tempo ad un ghigno beffardo e antico, pallida appariva la sua pelle, talmente bianca che potevi contare i singoli peli della sua barba rossiccia ed ispida... un coyote ecco, ad un coyote assomigliava, realizzò l’uomo mentre un brivido freddo gli saliva per la spina dorsale fino a rizzargli i capelli sulla nuca.
E quelle orecchie si andavano appuntando con quel ridicolo pelo in cima, e quel naso scuro fra quei baffi duri, stava diventando davvero quello di un coyote quel volto, un coyote antico, con una fame ed una solitudine di eoni che trasudava da quei pori strani e dilatati abissi su un altro tempo, altri mondi, quelle praterie che diceva di aver percorso da cavaliere sembravano invece essere state scorrazzate da quattro zampe unghiute sempre a caccia intorno agli accampamenti umani, completamente alieni per quell’essere inumano che sbavava brama di vivere dell’altrui vita, come uno spirito vecchissimo ed innominabile che fosse da sempre andato in giro in notti innumerabili e vetuste a terrorizzare il sonno degli ignari, dei sanguinacci che erano gli altri esseri viventi, un coyote sì ma di più un non so che di non vivente d’impossibile che ora da recondite pieghe oscure della natura e della realtà lo guardava con quegli occhi ferini fissi spenti oscuri beffardi paurosissimi occhi di belva… Bevve di botto un altro sorso l’uomo, ed un altro paio subito dopo.
Il calore dell’alcool gli dette sicurezza, gli sciolse la lingua:
- Ma che cazzo dici? Tu, a forza di vivere come un’animale
all’aria aperta a cercare l’oro, col sole e colla luna, col
caldo e col freddo, sei diventato un animale pure tu, ti piace unirti
con loro, come i selvaggi, perchè forse non sai stare colla
gente, e ti capisco su questo,...
- Non so stare colla gente dici? A fare che colla gente? Io ci vado
colla gente quando ne ho voglia, per spennarli, i polli - ed estrae
dalla tasca della sua giacca di pelle un mazzo di carte da poker che
comincia a mischiare ed a distribuire davanti a sé, coperte. -
Io li ripulisco, a me non mancano i loro zozzi soldi, io voglio
l’oro perchè è puro, mi è facile prendermi
quelle loro banconote unte al tavolo da giuoco - e strizzò
l’occhio il vecchio, ed ora non era più un coyote
né un cercatore d’oro, se non un giocatore professionista,
i suoi abiti, i suoi baffi, il suo sorriso impenetrabile, sembrava il
prototipo del baro, che vince, e lo sa.
E dà volta alle carte coperte chiamandole - Re - e sotto c’è il Re. - E allora qui al suo fianco ci vorrebbe una regina, ma quale? - e lì la carta coperta si rivela una regina di quadri, e sotto la regina chi c’è, ma è chiaro un fante, una guardia, e via dispiegando il mazzo che aveva prima mischiato così bene davanti ai suoi occhi che la truffa era impossibile, e gli uscivano le carte che voleva, che avevano un senso, per lui, e te lo spiegava ma non poteva esser vero, non era possibile… fortuna? Era magia!
E poi
faceva un gesto colla mano, che partiva avanti adunca nel gesto di
raccogliere le fiches, e quando lo faceva mentre parlava all’uomo
dava un senso di pressione allo stomaco, soffocante, fastidioso, ed a
nulla valevano le peraltro ottime lusinghe del vecchio che parevano
volergli, potergli rivelare il segreto. Che di altro non doveva esser
frutto se non del patto col diavolo. Nervoso l’uomo di scatto si
alzò e disse, ma a noi che cazzo ce ne frega di giocare a carte
per vivere fregando la gente, quando abbiamo l’oro? Dobloni! I
dobloni, voglio vederli, io, riempirmene le mani le tasche la
borsa, ah! no! Non mi fregherai vecchio, anche se non li ho mai visti
io, i dobloni, l’oro lo conosco, me ne piace talmente il sapore
che da piccolo mi sono mangiato la medaglietta di nonna. Non
dimenticherò mai il suo sapore, il suo elettrico pizzicore che
ti scalda il cuore. Zitto vecchio, ora è tempo di andare, o che
vuoi fregarmi forse, ci hai ripensato o che? Andiamo! -
- Andiamo, andiamo - fece il vecchio misterioso.
Camminando l’uomo non poteva fare altro che pensare a quelle carte a come quella regina di quadri fosse lì, proprio dove doveva essere ogni volta ed a tutta la struttura che il vecchio aveva creato colle carte, a quel castello di potere di cortigiane di ricchezza che il vecchio gli apriva davanti così, a comando di quella sua volontà di quella sua arte antica e vera, un antico segreto che quel vecchio di epoche andate portava con sé, sarà pur stato una qualche specie di stregone quel misterioso personaggio apparso lì nella parte più cupa della miniera e della sua stessa vita, nel mezzo dei casini, della disperazione dell’angoscia, ma costui gli apriva le porte della ricchezza, il tesoro!
La buia galleria veniva a stento rischiarata dalla lampada e le forme
che si intravedevano nelle penombre erano inquietanti, un coro un
corteo di supplicanti flagellati, ogni trave spezzata ed ammuffita ogni
pietra ogni rottame tendeva le sue mani mendiche a lui ad elemosinare
la sua vita la sua carne le sue esperienze, sembrava un mercato dei
ricordi delle nascite e delle morti che silenzioso gridava facendo le
sue offerte immonde per grembi gravidi, per un momento di quegli occhi
che non avevano... erano tutte mani tutta questua tutto avvicinarsi
lambirlo, ondate di quell’esser soli quello sguardo perso negli
occhi di sua madre che triste aspettava sempre suo padre, quello
sguardo maniaco che brillava porcino negli occhi del maestro cui aveva
messo in mano sua figlia, venduta al mercato della convenienza, del
proprio interesse o di chissàcche, questo nulla bastardo e solo
che muove quelle mani supplici supplizianti rancorose indegne e pur
lì come le sue, uguali, grondanti sangue e peccato.
Dal buio più fitto delle infinite gallerie, buchi di lombrico scavati nelle viscere della madre, sempre più calde come se ci si avvicinasse al centro di essa alla stella dentro alla matrice infiammata, da dietro ogni angolo oscuro e silente esplosero demoni uomini a testa di fungo lo guardavano prima di svanire e il geco aveva il suo dono l’orribile uomo con testa di coccodrillo che gli rivelava che le nostre razze, la nostra umana e la sua orribile ed aliena si erano separate 82 milioni di anni fa, terribile la consapevolezza di tale mostruosità; e la voce degli antichi maestri che lo incitano a stendersi cinque anni nella tomba e così con questa finta morte ripulirsi dall’orribile impronunciabile peccato delle sue origini tanto compromesse che urlavano chiedendo riscossa e così mentre camminava sulla nuda pietra compatta del fondo della galleria si stese lì dove non c’era nulla e mirando fitto nell’oscurità si domandava cosa fossero cinque anni se un respiro solo di quelle caverne plurisecolari se un attimo del suo cuore fermo morto.
Nulla più disturbava il silenzio né il suo respiro né quello del vecchio e sprofondò nella terra, mura di una fossa alta un metro lo circondavano ora e lui era morto ci si sentiva pietra nella pietra gravida di peso ed immobilità e dall’oscuro che circondava la sua fossa di morto si affacciavano quelli là, gli ibridi gli antichi oscuri uomini dalle teste di animali e guerrieri cornuti e gli chiedevano di finirla col supplizio che l’uomo andava infliggendo loro, da quanto? nemmeno riuscivano a ricordare quelle memorie incantate dei tempi che furono che portavano fra le mani nelle quali s’impastavano anche i suoi pochi ricordi beati d’infanzia così fatati sempre col sapore della meraviglia e del mistero; e la cresta di gallo su quell’antico si ergeva ritta e fiera mentre egli chiedeva giustizia non pietà ed erano seduti in cerchio intorno a lui quel conclave eterno di cui faceva parte anche lui colpevole d’aver tradito colpevole d’infligger loro l’esilio l’oblio la morte civile la condanna al nulla divoratore ai cui morsi brucianti essi resistevano ancora, il satiro aveva le carni lacerate e sanguinanti in più punti ed un ghigno beffardo su quella sua testa di capra lo sfidava a graziarli a strapparli dagli artigli del carnefice, e lui lui dal profondo della terra erge il suo spirito e ammira le sue stesse carni stese morte nelle profondità della sua tomba e vede tutte le cicatrici delle sue occasioni mancate, degli sguardi persi abbassati che fuggono colpevoli non si sa mai da che, i segni sulla pelle dei suoi peccati, dei suoi tradimenti delle sue promesse mancate, la sua indolenza che aveva iniziato a putrefare il suo corpo ancor vivo, che si decomponeva in ripetitività, errori consapevoli e pigri, attaccamento angosciato ad ogni cosa ogni respiro ogni familiarità, ed ora dal profondo della sua tomba dalla sua pesantezza estrema ed immobile, dalla sua distanza incolmabile dal mondo dei vivi, degli esseri di superficie, dalle sconfinate masse umane che piccole si dileguavano all’orizzonte degli eventi l’uomo finalmente si vedeva torturato pure lui corpo martoriato spirito piegato e compromesso ed incallito nella brama
– Sono una vittima anch’io, torturato ed offeso dalla vita o dai suoi padroni. Sarò pur carnefice vostro antichi compagni miei di sempre, ma se io vi ho recluso esiliato torturati nel nulla se le catene della vergogna mia penetravano nelle vostre carni d’esseri d’altri tempi forse innocenti, e vi ho costretti a rintanarvi nelle celle della solitudine della desolazione dell’oblio impellente e gonfio carnefice ebbene anch’io son torturato son vittima, vittima e carnefice sì e sono morto in fondo a questo buco e spero che la roccia sbianchi il mio corpo e sostituisca la sua saggezza antica alla consapevolezza dei miei crimini e del peccato originale ormai dimentico, alla disistima di me stesso e dei miei vicini, alla rabbia che mi divora di voler ciò che non è mio, non è mio se non lo merito e sì io lo rubo e lo divoro e poi non esiste più ingoiato dal leviatano della mia insoddisfazione della mia debolezza della mia paura della mia ansia soffocante. Vittima e carnefice sì mi vendicavo su di voi che tanto non esistevate ed il mio odio la mia sete di dolore veniva tutta lì a Voi, che d’altra parte siete gli unici mentre io già non ci son più sono pietra pesante cadavere in fondo a una buca in una miniera dimenticata da dio e dagli uomini e sprofondo e non sento nulla…
E quel leone di pietra si anima e parla della sua di pesantezza con
parole lente che duravano anni ognuna e l’uomo si
ricordò dei cinque, take five, fammi dormì altri cinque minuti,
e degli anni che doveva stare nella tomba e che forse erano passati,
passati di sicuro ed era ora di uscire dalla fossa e si ritrovò
che camminava ancora dietro al vecchio e non si era mai steso ed aveva
sognato tutto.
Allora il vecchio si fermò e disse – Guarda qua – e lì davanti a loro la sua fossa scavata inclemente rettangolare scolpita nella roccia quando prima non c’era, l’aveva visto bene lui, ma ora che era lì la riconosceva, eccheccazzo ci aveva passato cinque anni cinque da morto e la conosceva ed era la sua tomba ed era lì vera e allora era vero e non era un sogno era successo veramente e forse si era ripulito per davvero ed ora sarebbe stato in grado di trovare il tesoro, sì! aveva il cuore puro ora. Eppure aveva sempre camminato non si era mai alzato, chi era che camminava, chi nella tomba? E come poteva esserci la sua tomba lì davanti a loro? Sudava freddo nel caldo afoso della galleria, l’ennesima di quegli infiniti budelli dell’inferno.
- Dove mi stai portando che succede? E il tesoro? –
- Hai tesori dappertutto e non sai mai prenderli, hai buttato la tua
vita a lamentarti e stavi fuori lì ove splende il sole, il
sole!, e la luna e le stelle e l’occhi di donna e tu
lì a buttare tutto all’aria a negare a nascondere il
tesoro della vita a te ed ai tuoi cari, lacrimoso in una valle di
lacrime, annegato nella merda, che cazzo offrivi alla tua donna ai tuoi
figli? La noia? La paranoia? La paura? La rassegnazione
all’ineluttabile destino di divorare se stessi e chi ci sta
vicino? –
- Basta vecchio malefico, che sai tu della vita? Che sai tu della mia
vita? Perché t’intrometti? Chi sei? Dove mi stai portando?
Dov’è l’oro? –
- Più giù – e la uuu non la smetteva più ed
echeggiava orrido ululato di coyote e sentì il suo lezzo
selvatico che sapeva di una terra e di selvaggina che qui non
c’era non poteva esserci nelle catacombe della cupidigia,
nell’oltretomba dei cercatori d’oro ululava quel demonio e
l’uomo sentiva il raspare delle sue zampe sulla roccia
schioccavano i suoi artigli e la sua bava erano le ragnatele pendenti
da quella galleria che lo lambivano appiccicose.
- Ahaaaaa, si prende la testa fra le mani l’uomo e strappa le
ragnatele liquida bava di coyote di vecchio di nulla in gelatina, vede
la sua stessa faccia nello specchio del buio ed è terribilmente
distorta e spigolosa come le rocce scavate a picconate da schiavi
trasudanti dolore, e il suo volto si vuole confondere colle rocce
mimetizzarsi in esse diventare pietra ed il richiamo
dell’immobilità perenne lo attrae mentre le ragnatele la
bava lo risucchiano verso l’orrida faccia di coyote con quel
cappello da cowboy vecchio di pelle vecchia come vecchia è la
pelle del vecchio e da quella giacca bisunta da quel taschino spunta la
carta da giuoco, il tesoro! E la prende la carta l’uomo e grida
– è questo il tesoro vecchio, non v’è altro
oro in questi budelli infernali ove mi conduci senza meta, non ne sento
più la puzza dell’oro, io, mi hai fregato vecchio
bastardo, ma ora me lo dai, sì l’unico tesoro che hai,
quello che può fare la mia ricchezza, la carta, le carte,
quest’arte occulta, vincere, sempre, i soldi. Ora me lo dai il
tesoro, vecchio, sennò ti strozzo qui colle mie mani. –
Il vecchio ora dritto come un fuso, quel suo cappello inclinato, la sua
giacca che sembrava appena stirata, gli stivali, la barba sotto quel
mento appuntito, elegantemente muove un bastone colle sue mani
allungate e traccia una linea sul terreno fra sé e l’uomo.
- T’insegnerò quest’arte, il vero tesoro che ho da
darti, come hai indovinato, ma per poterla apprendere dovrai
attraversare da solo questa linea ed entrare nel mio regno, ove essa
è celata, non c’è altro modo… -
L’uomo salta e a piè pari attraversa la linea gridando
– e sia –.
Tutto cambia, tutto è diverso, intorno a lui
stringhe luminose scorrono in tutte le direzioni, vede concetti
astratti scorrervi, lui è connesso a tutto e quasi sembra di non
essere più nella galleria, anche se la intravede ancora
sovraimposta da quell’altra realtà di vibrante ragnatela
d’energia della quale fa parte e di fronte a lui la bolla
luminosa di quello che sa essere il vecchio ma quando lo guarda in
quella maniera in cui anche riesce a vedere le pareti della galleria e
la lampada invece vede se stesso, un altro se stesso
- che hai fatto vecchio hai preso le mie sembianze ti sei travestito
quale altro maleficio…? – e la sua voce echeggia metallica
tintinnando su tutte quelle stringhe infinite di luce, e la sua voce sa
di pietra di cristallo nella stessa maniera in cui quella del vecchio
sapeva di coyote, fredde le rocce assorbono la sua voce che era lui
stesso.
- Ah ah ah, ride l’uomo, quello che ora è l’uomo, quel
corpo come il suo colla voce del vecchio, ride il vecchio insomma, non
hai capito ancora un cazzo babbeo? Ora sei fregato dovrai vedertela tu
coll’indicibile vacuità di questa montagna tutta roccia
oro e metalli preziosi, potrai vederlo tutto l’oro, esserlo
persino forse tu che lo senti così tanto e che già puzzi
di minerale, ma non potrai mai prenderlo, non hai più
mani… stupido! -
E l’uomo si guarda le mani e le sue solite vecchie mani sono
lì dove devono essere, anche se al tempo stesso son solo raggi
di luce
- Che guardi stolto? quella è solo l’immagine, e stai
attento a conservarla quell’immagine, quel ricordo di te stesso,
a tenerlo pronto se mai un giorno troverai un altro a cui
mostrarlo… ah ah ah, l’oro, l’oro ci ha fregati, noi
ci siamo fregati da soli, ma ora son libero io, tu ti sei fregato da
solo, posso andare ora con questo corpo giovane, il mio tesoro,
l’ho trovato io infine. –
L’uomo si lancia contro il vecchio contro quell’altro se
stesso il duplicato l’impostore lo colpisce ma non vi riesce, non
è che gli passi attraverso, tutt’altro, nemmeno lo sfiora
la sua mano scivola tangente lì proprio lì, ma
atrocemente in un altro piano in un’altra dimensione; si lancia
ancora a tutto corpo e l’impatto è nauseante, gli è
lì addosso e non c’è, è lontanissimo quanto
possono esserlo due universi, due interamente opposti modi di vedere il
mondo, di viverlo di esserlo
- Non hai più mani, non hai più stomaco ragazzo, non puoi
più mangiare, non hai polmoni per respirare né cazzo per
scopare, o pisciare se era solo quello che sapevi farci,
nullità, ne sei parte ora di questo nulla imperante che ti sei
scelto ne sei parte veramente prigioniero, ah ah ah, ed io libero,
grazie brocco. -
Il contatto col corpo del vivente, che ora è il vecchio è
estraneo e disgustoso come se stesse in una melassa solida ed
opprimente, ma al tempo stesso vivo, non c’è altra
definizione e con sé porta tutto il richiamo di ciò che
è capace di essere, e di divenire ciò che vuole e scorre
lungo queste stesse stringhe d’energia che sembra non vedere con
grazia ed eleganza come se fossero le sue seppur sia di un altro mondo,
e mille ricordi di momenti meravigliosi della sua vita quando in cuor
suo sapeva della grazia che era esplodono nella sua coscienza, quel
sapore lontano d’uomo pulsante vivace così diverso da quel
sapore immobile di pietra di granito, e la proiezione nell’immagine
di quella che era la sua bocca di quel sapore metallico dei minerali pregiati e
di quell’oro che erano lì nascosti mischiati colle rocce,
e linee luminose partivano da lui e lo collegavano a un altrove
ov’era il biondo metallo e che era tutt’uno con lui.
Minestrone primordiale, prossimità adiacenza intreccio
entanglement di tutte le cose, ricordo perenne condizionamento
reciproco.
image credit: CRISO
Rodolfo de Matteis 2002/2008