UN ORGASMO NELL'ASCELLA
(racconto verità)
Nel sogno la sensazione di piacere è così forte da
risvegliarmi.
Strano, quella specie di orgasmo è localizzato nella mia ascella
sinistra, e non lì, al solito posto.
Una bellissima donna più unica che rara nella sua ferina
sensualità mi deve baciare proprio sotto l'incavo del braccio e
l’effetto di quell’interminabile bacio è così
intenso, così accattivante, così concretamente reale:
piacere puro, mai vissuto prima in maniera tanto forte.
Apro gli occhi, e la testa del Serpente è proprio lì.
Parecchio più grande del mio pugno chiuso, pericolosamente
triangolare, spunta fuori noncurante da quell'insolito abbraccio.
Stavo dormendo ad un centinaio di metri scarso dalla linea dove le onde
dell'oceano si infrangono pigre sulle prime sabbie esposte; lì
dove inizia la vegetazione ai piedi della collina e puoi vedere quel
dardo di luce che il sole lancia sull’acqua correre dritto fino a
te, bloccando il respiro del mondo in una cosmica apnea piena di
energia del vuoto, quando il tempo si ferma; personale e dolcissimo
regalo per alcuni, viaggiatori dei mondi; impietosi momenti di
nauseante paura per altri, ancora assuefatti alle loro catene.
Lì un santone, mio amico di vecchia data, ha installato
quest'anno il suo fuoco sacro, intorno al quale siede la gente quando
cerca riparo dal calore o dalla solitudine, e nei dintorni ha piantato
il suo giardino tropicale, cui anch'io ho contribuito con un albero
gran produttore di fiori bianchi e profumati, che ho portato
cavalcandoci sopra in moto sin dall'altro lato del fiume, e che voglio
tanto sperare sia ancora lì, salde le sue radici fra le rocce.
Più in alto, dove la natura già creò un gradone,
la mano dell'uomo lo ha spianato ottenendo così uno spiazzo
liscio, sotto l'ombra delle altissime palme, dove io, stanco da
un'intera notte di danze per celebrare la fine
dell’oscurità, quando il sole, arrivato al suo limite
più freddo e tenebroso, ricomincia di colpo a salire
sull’orizzonte e nel cielo e la vita a scorrere nuova nelle
nostre vene, ho trovato sollievo dall'afa del pomeriggio, scivolando
fra le braccia di Morfeo, che ora pare essersi trasmutato in
quell'enorme rettile: sono paralizzato.
Il piacere è ancora lì, fisico, pulsante e vivo, ma la
mia mente non vorrebbe goderne, persa com'è a pensare come,
appena io muova un solo dito, quella smisurata testa verde potrebbe
scattare veloce ad azzannarmi. Così muovo solo gli occhi, e
molto piano.
Al mio risveglio, dopo quell’attimo di eternità in cui il
serpente dev'essersi coccolato lì sotto di me amoreggiando col
mio corpo assopito portandomi alle vette del godere, la sua testa
comincia lentissimamente a muoversi, conservando quel fare suo
sonnolento che io invece ho perso così in fretta, d’un
botto solo, da quelle vette alla valle di una strana paura, che
è al tempo stesso incredulità e rispetto e
serenità.
Il silenzio è surreale in quel caldo pomeriggio, il fluire del
tempo è segnato solo dal lentissimo, rilassato scorrere di quel
corpo, così caldo per essere un sanguefreddo, contro il mio,
congelato nella consapevolezza ancestrale della pericolosità
estrema di quella situazione, ma attratto dal mostro sacro, cui sono di
fatto avvinghiato. Quando il capo verde comincia pian piano a
strisciare sulle mie costole, da sotto l'ascella spunta il busto della
serpe, grosso il doppio del mio braccio.
Gli uccelli non cantano, non c'è un alito di vento a muovere
l'aria, ed il mare dev'essere così tranquillo come non mai
ché non odo lo sciacquio delle onde contro la battigia; la
bestia sacra non produce alcun suono strisciando interminabilmente fra
il mio braccio ed il torace che mantengo immobili, evitando persino di
respirare sin quando infine quella testa supera la mia mano ed un
levissimo ronzio d'ape giunge al passare timido ma obbligato dell'aria
fra le mie glottidi serrate.
Trascendo: quel primo suono, primordiale vagito che pretende la vita in
un mondo silente, l'ho provocato io, e temo di doverne pagare care le
conseguenze. Ma no, il serpente non pare affatto turbato, ed il suo
corpo continua a sgorgare dalla mia ascella come un lento fiume di
pianura, senza che il suo diametro accenni minimamente a diminuire. Il
suo incedere è rettilineo, inesorabile come un pericolosissimo
missile a testata nucleare che si muova al rallentatore, non serpeggia
come ho sempre immaginato facciano quegli unici esseri organici che non
hanno zampe, né ali, né pinne, né radici. Una
forza invisibile ma potentissima spinge avanti quel treno di carne
peraltro immobile che tocca infine terra, ma sempre a contatto col mio
fianco. Eoni scorrono densi di immobili emozioni, terrore, ammirazione,
amore e repulsione, e, alfine! l'orrifica testa raggiunge il mio piede,
ma la sua coda non ancora esce fuori dalla mia ascella: è
più lungo di me!
Una bestia mai vista!
Aspetto ancora che quelle sue fauci serrate siano ad una distanza di
sicurezza dalla mia pelle, dieci, venti, trenta centimetri che non
passano mai, sono i momenti più difficili, hanno a che fare con
una mia decisione: quando agire, e soprattutto il riuscire a farlo, e
bene, vincere quel magnetismo che tiene ancora il mio spirito unito a
quel corpo, che mi ha dato tanto amore, ma che so potrebbe uccidermi
appena commetta io un errore...
Poi scatto. Quasi un serpente io stesso, salto come un felino e rotolo
di botto sulla mia destra investendo una persona che, ignara, dorme
lì e della cui presenza non mi era sinora affatto reso conto.
In spagnolo, poi in inglese ed italiano il tipo comincia ad imprecare
contro di me. Lo conosco: è un asturiano, fiero, magro, dai
capelli rossi come la sua carnagione e che, come me, vive qui da molti
anni. Blocco il suo fiume di male parole:
- Il serpente! ¡Cuidado! It's fucking big! -
Si alza in piedi di scatto l'asturiano, si guarda intorno, poi punta di
nuovo su di me quei suoi chiari occhi normanni:
- Ma che cazzo dici? Non c'è niente qui. Nessuno. ¡Nada!
È solo un sogno. I tuoi cazzo di incubi, paranoici come te! -
Non posso crederci. Era lì, reale più di lui e di me
messi insieme, non era un sogno, lo so! Corro nella direzione presa
dalla serpe e, quando mi affaccio dal muretto di pietra che separa lo
spiazzo dal declivio degradante verso la spiaggia, lo vedo lì,
in mezzo alla vegetazione. È quasi nero, ora, nell'ombra delle
piante molto più verdi di lui, discende veloce e diritto come un
treno, imperturbabile, lungo almeno due metri e mezzo.
- Quello che è, rosso? Eh? Un sogno? Corri se vuoi vederlo, non
aspetta, quello! -
- Cazzo, è vero! - torna ad essere di poche parole, il rosso,
come suo costume.
Il nostro battibecco ha attirato il pubblico: un viaggiatore, che
quando mi addormentavo non c'era, come l’asturiano, si alza dal
sacro circolo del fuoco dov’era seduto immerso nelle sue
meditazioni e sale, guardando laddove continuiamo a fissare anche noi.
- Una vipera-pitone è - dice con accento pugliese ammirandolo
come in estasi - come lo chiamano da queste parti.
- Grande come un pitone, ma scuro e velenoso come un cobra, o forse
più questo qui; data la sua mole, proporzionale a quella delle
sue zanne ed alla quantità del veleno. Può ucciderti in
due modi: stritolandoti come fa il pitone, o mordendoti come fa la
vipera... Devi accendere un cero oggi, sei stato molto, ma molto
fortunato! -
Ma io, ora, so che non è così, abbiamo solo fatto
l'amore, senza ombra d'altro, ed il suo allontanarsi l'avevo voluto io,
o meglio la mia paura, mentre il serpente è stato capace di
darmi più piacere di qualsiasi donna, e chissà
cos’altro. No, non è penetrato in me, come potrebbe
pensare una malalingua o un buontempone se osassi raccontarlo.
No, è uscito fuori da me, come Eva dalla costola di Adamo.
Tornato al mio villaggio, cammino scalzo, alla luce delle sole stelle,
di passo svelto che è quasi mezzanotte e sta per iniziare l'anno
nuovo, un paio di chilometri mi separano ancora dal magico luogo dove
le onde si dissolvono in spruzzi fluorescenti sotto lo sguardo vigile
ed immoto di un’enorme scoglio che ha il profilo di una testa,
gigantesca, di scimmia, che monta la guardia perenne a quella spiaggia
isolata dove è convocata la festa.
Ed ecco che li sento, caldi, i due denti penetrare nel mio alluce
sinistro. Brucia il morso, come quello di uno scorpione, ma non ti puoi
sbagliare ché i tizzoni ardenti sono due.
Scalcio immediatamente, e poi la vedo: immersa nella fitta
oscurità la piccola vipera è più nera della notte
e serpeggia scivolando via nell’aria a cavallo di due anni.
Sei tornato!!! Jai Nag!
rodolfo de matteis 2001 raccontando un avvenimento vero del 1989, quando allora poi mi feci questo tatuaggio: