JAULA
(Di colpo) sono in una gabbia. La classica gabbia da canarino. E lì dentro sono solo. La gabbia pende dal soffitto, appesa ad una catena, una distanza enorme mi separa dal suolo, ma dietro il muro è vicino.
Mi affaccio dalle sbarre fra cui non riescono a passare che le mie braccia, ci sono molte altre gabbie uguali lì intorno, appese a differenti altezze, ma solo una è tanto vicina che posso distinguerne gli occupanti, ci sono due donne dentro e come me si sporgono dalle sbarre, sono sicuro di conoscerle, anche se per la distanza e la posizione reciproca non posso vederne bene i lineamenti. Al vedermi tentano di dirmi qualcosa, ma non capisco cosa se non il tono di urgenza delle loro voci le quali mi sono molto, ma molto familiari.
Guardo più in là, nella direzione opposta a quell'enorme muro cui sono addossate tutte le gabbie e, torreggiante come l'Empire State Building, vedo il dottore. È enorme, come vedere un uomo cogli occhi di un canarino, e, indubbiamente, il gigante è un dottore. Lo si riconosce subito come mio padre dal camice bianco lungo sino alle ginocchia, dall'odore di ospedale che aleggia per la stanza, e dagli strumenti che sul suo tavolo. Papà! Volta le spalle a noi ed armeggia sinistro sul tavolo, ma il suo corpo nasconde allo sguardo l'attività delle sue mani.
Fa paura con quell'incredibile sensazione di potere che emana. Non mi sento in preda al panico, come sembrano essere tutti gli occupanti delle numerose gabbie a giudicare dalle urla che si alzano fuori controllo; ma certo l'unico pensiero lucido che riesco ad avere è quello di trovarmi all'inferno e che quel gigante sia il diavolo in persona. E poi il sapore che ho in bocca e che impregna tutto il mio corpo, dentro e fuori, è puzza di morte, lo conosco bene, e d'inferno.
Vengo richiamato dalle mie macabre riflessioni dall'inacutirsi delle urla dei prigionieri: il dottore si è mosso. Le sue gambe sono alte come le torri gemelle, ma ricordano forse più le torri di Bologna poiché non sono uguali, il gigante è zoppo! La scoperta mi colma di inquietitudine, ed incute ancor più timore, ma, al tempo stesso, capisco trattarsi di un suo punto debole, è vulnerabile il mostro, ed incredibilmente umano, non perfetto come Mefistofele. La matassa è ingarbugliata, ma dalla mia memoria emergono vaghi ricordi di altre persone che hanno rivestito sempre un ruolo di autorità nella mia vita, tutte legate dalla medesima tara: lo zoppicare che avrebbe sviluppato mio padre gli ultimi anni prima di morire...
L'incedere del suo gigantesco claudicare è decisamente rivolto nella nostra direzione, le urla degli umani che condividono la mia sorte, somigliano sempre di più al grido degli uccelli di cui occupano le gabbie tanto alta è la frequenza, e raggiungono il climax quando un braccio, grande come un raccordo autostradale, si leva verso una gabbia, ne apre lo sportello estraendone il malcapitato che sparisce in quella gigantesca mano. Deve aver già perso i sensi dal terrore ché non lo si vede dibattersi.
Lentamente si gira di nuovo e, circondato da un'aura di terrore puro, zoppicando il dottore raggiunge il tavolo sul quale pone la sua vittima e comincia ad armeggiare su quel corpicino indifeso, mentre le urla dei prigionieri si trasformano in un piangere convulso.
Le due donne mi guardano e gridando più forte che possono implorano il mio aiuto, le riconosco: sono mia mamma e mia moglie...
EVASIONE
Li vedo, finalmente, i miei carcerieri.
Sono lì, di guardia, sul muro di cinta e, se solo penso ad uscire, essi avanzano.
Contro le luci dei mille e mille fuochi artificiali che esplodono nel cielo della notte di Natale si stagliano le loro orribili silhouette nere come l'inferno. A metà strada fra granchi e ragni, ma grandi, grandi più di un uomo.
Devo evadere, fuggire al più presto da questa galera in cui sono oramai rinchiuso da molti, troppi anni. Quando fui rilasciato dal carcere, quello "vero", non fu che un'illusione, passai sì la porta, ma nel senso sbagliato, ero in entrata, non in uscita, ero ancora dentro in quello vero, quello psichico, esistenziale, in cui vive tanta gente senza nemmeno saperlo. Ma ora, ora che lo so, lo so per certo dopo averlo sospettato per tanto tempo, penso che la pena non avrà fine nemmeno dopo quei dieci (che sono già passati) o venti anni cui avrebbero potuto sentenziarmi al processo che invece, contro ogni aspettativa altrui, io vinsi. Oramai ho capito che tutte le condanne sono a vita, come minimo. Dopo averli persino visti quei mostruosi secondini, è chiaro come la fuga sia l'unica via d'uscita possibile, almeno ci si deve provare, ché nessuno ti libererà mai se non lo fai tu stesso, e rischiare la morte per evadere è senz'altro meglio che tentare di sopravvivere così.
L'animale che vive in me mi sbrana se non lo libero, e presto.
Al primo tentativo mi hanno riacchiappato, è stato orribile ! il contatto con questi esseri, anche se in quel momento non li avevo ancora visti, fu ripugnante. Avevo deciso di andarmene verso l'alto, ascendere, volar via, ma feci un errore. Seduto a gambe incrociate, dentro il salone della meravigliosa villa in cui sto passando le feste, raccolsi le energie per quella pratica, potentissima, che stavo studiando da tempo, ma, al momento stesso del balzo, quando già sentivo la spinta ascendente, mi preoccupai del soffitto. Ora penso che sia stata un'ingenuità pazzesca il poter pensare che, nel tentare una cosa irrazionale come la levitazione, nell'affidarmi insomma alla magia, potessi portarmi dietro una preoccupazione così razionale come quella che il mio corpo non fosse capace di attraversare il tetto, ma, tant'è ... e in quel momento, mi colse questa paura, che stava per costarmi molto cara. Così quando già quasi volo, invece balzo in piedi correndo verso la porta per farlo da fuori, dal giardino, a cielo aperto.
Vicino alla porta a vetri… essi mi acchiappano.
Non potevo vederli, ma come li sentivo! Mi presero e mi sollevarono, e seppi subito trattarsi di loro, non era la mia la forza che mi strappava dal suolo, ed il contatto colla loro presa è veramente orribile, raccapricciante, disgustoso. Mai in questa vita ho provato una paura così forte, intensa, devastante. Terrore puro!
Io che un attimo prima volevo volare, io che ero scattato di corsa per uscire fuori in giardino, stavo combattendo con tutte le mie forze per tornare a poggiare i piedi per terra ed il più dentro possibile, nella casa. L'adrenalina centuplicò la mia energia, mentre sgambettavo all'impazzata nell'aria spingendo in giù verso il suolo, la mia terra da cui volevano rapirmi per condurmi in chissà quale orribile posto. Nel divincolarmi dalla loro morsa invisibile, sapevo di non poter perdere a meno di accettare un destino più terribile della morte e ciò mi rafforzò: il miglior combattente, dicono, è quello colle spalle al muro, quello che non ha più nulla da perdere ed è vero, la mia volontà di salvarmi fu inflessibile, dura e pura come il diamante.
Il calore di quel corpo amico: la prima sensazione nel riprendere i sensi. Come l'ho amato in quel momento! Il suo amore, il calore della sua nera pelliccia, la sua animalità mi hanno salvato. Stremato dallo sforzo per la titanica lotta mi risvegliai abbracciato al cane restandogli poi avvinghiato a lungo, finché il pericolo immediato vinse il ricordo del terrore da cui ancora non mi riprendo.
- Devo chiudere tutto, la porta è ancora aperta! - e così prima di serrare, li vedo, lì sul muro di cinta. Ma anche ora che tutte le finestre e le porte, anche sul retro, sono chiuse, temo che possano entrare, tutte le luci sono accese, ma inquietanti ombre si aggirano per la casa.
Anche se ora non c'è, qui vive un'artista, una mia amica fra l'altro mecenate e collezionista d'arte e antichità.
Afferro una specie di clava di pietra, forse preistorica, l'unica arma che trovo, e comincio a menare con quella. Ad ogni soffio, fruscio, muoversi di nebbie, colpisco. Sfascio una meravigliosa lastra di marmo che un attimo prima fungeva da piano, montata su piedi in ferro battuto, per un tavolino in istile liberty, mi pare fosse una scacchiera; i pezzi di marmo volano in tutte le direzioni, ma è solo il primo colpo. Poi una sedia impagliata, un tavolino di legno, una lampada dal design avveniristico, un vaso cinese, finché perdo il conto, meno e basta, ho un'altra arma nella mano sinistra, forse la zampa di un tavolo, e le uso entrambe. Opere d'arte volano in pezzi una dopo l'altra, ma non permetto a nulla di avvicinarmi, spalle al muro il mio sguardo gira su tutti i fronti frenetico, e così la mia furia, ma la luce ora mi abbaglia, ché queste cazzo di ombre, pur essendo scure, si vedono meglio contro l'oscurità, e così lancio qualcosa contro il lampadario di cristallo che pende dal soffitto. Le sue gocce piovono ed esplodono in mille riflessi alla luce lunare che entra dalla gigantesca porta a vetri, pare un bombardamento americano.
Ce ne sono meno, dopo l'azione, o sono fuggiti tutti.
Nella quiete dopo la tempesta la casa è un campo di battaglia, rottami di quella che era una galleria d'arte domestica, pezzi rari collezionati con gusto e dedizione per anni, giacciono mutilati sul suolo, cadaveri della mia guerra dimensionale. Poi, inattesa, un'apparizione.
Fuori, oltre la vetrata, un uomo nudo chiede a gran voce di entrare. Lo conosco appena di vista, so che è amico della padrona di casa, un tipo strano, la faccia spigolosa, incavata, due occhi febbricitanti, trema, dice di sentire un gran freddo, implora di aprirgli che sennò si becca una polmonite, e per colpa mia che tengo chiuso tutto.
Non gli credo, probabilmente non è nemmeno lui ma un trucco del nemico, oppure è caduto in loro potere: il suo sguardo non mi convince, e poi stanotte non fa davvero freddo. Quello insiste e minaccia, ma io non cedo.
Se ne va, ma subito torna brandendo un enorme macete, con una lama lunga almeno un metro che sbrilluccica sinistra alla luna. Dice di esser disposto ad ammazzarmi piuttosto che morire lui assiderato fuori da casa sua.
Pare un samurai, accenna un saluto col capo e si pone in posizione da combattimento fissandomi fisso negli occhi con quel suo sguardo folle.
Sono preoccupato, credo che con quell'arma possa sfondare i vetri non tanto spessi della casa, e mi preparo a riceverlo colla mia mazza di pietra ma, così come era venuto se ne va, parlando però con qualcuno, ed infatti una voce di donna gli risponde dalla casa. Corro nella direzione da cui ho udito provenire la voce femminile, ma incontro una porta chiusa alla quale busso freneticamente.
- Sono una prigioniera anch'io - mi dice la donna - sto dentro fin dai tempi di Auschwitz, e lui voleva solo aiutarti - ma la sua voce è quella di una ragazza, di una mia ex che già mi ha dato troppi guai colla sua perfidia. Dev'essere una spia. Un altro trucco, stanno scandagliando la mia mente! cercano punti deboli, mi aspetto ora di vedere comparire i miei genitori, o chissà quali amori estratti dalla mia memoria.
Sono pronto a tutto, ma cala il silenzio e la notte procede calma.
All'ora più buia che precede l'alba mi risolvo: guadagno la porta. e tenendomi stretto al folto pelo nero del grosso cane (so che se lo lascio sono perduto) trovo il coraggio di attraversare il giardino sotto lo sguardo vigile dei leoni di pietra.
Dopo l'interminabile traversata di quell'oscuro oceano d'ombre e ricordi finalmente apro il cancello.
Usciamo, e mi affretto a richiudere la pesante cancellata di metallo nero, non voglio che i ladri possano entrare. Il cane si rifiuta di rientrare, e, nero come la notte sparisce nell'oscurità, i suoi padroni non lo vedranno mai più.
Ché anche lui ha combattuto da guerriero per la sua libertà.
EVASO
Salto fuori dal nulla.
Sbuco fuori proprio nel mezzo della piazza di una città; un attimo prima ero in un altro luogo, in un altro tempo pure, ché era quasi l'alba, mentre qui pur essendo sempre scuro è chiaramente sera, provengo da un altrove, un altro piano di esistenza, un altro pianeta, da quella maledetta galera da cui sono finalmente riuscito ad evadere. Non mi materializzo nudo come Terminator, indosso jeans, una maglietta e dei vecchi sandali, ma in un certo senso lo sono perché non ho nulla con me, né una borsa, alcunché nelle tasche; il posto lo riconosco, ci sono già stato: sono in un altro paese, addirittura in un altro continente, senza il becco di un quattrino e senza identità non avendo alcun documento, ma sono su, molto su, è grandioso: sono libero! libero e felice, felice senza essere euforico, sono molto vigile, e mi guardo subito intorno.
Esco fuori dal nulla prima con il piede sinistro, poi la gamba, poi il resto del corpo ed infine l'altra gamba, atterrando in questa magica città, dove per quante volte tu ci venga, o quanto convenzionale sia il tuo modo di arrivarci, non è mai la stessa. Guardando oltre l'apparenza, e qui è facile in quanto la realtà letteralmente trabocca da dietro il sipario, ti accorgi subito, ogni volta che ci torni, di come non sia la stessa che ti sei lasciato dietro le spalle l'ultima volta che partisti. Deve trattarsi una struttura multi-livello, ed in alcuni livelli l'apparenza è la medesima: stessi palazzi, stesse strade, stessi alberi, fiumi, persino le persone sembrano le stesse, ma appena le guardi negli occhi sai che non è così: sono diverse. La struttura della realtà cambia profondamente e gli accadimenti, le storie, la tua fortuna sono separati da milioni di chilometri, o forse anni-luce. Però ci sono dei passaggi, dei portali che ti permettono di saltare fra i livelli. E altri che ti conducono su Marte, Venere, o addirittura molto più in là, dove le stelle ti risultano sconosciute. A volte intere costellazioni saettano via nel cielo più veloci di un jet e ti ritrovi in un mondo senza stelle, ai confini di chissà dove. Ci sono specchi dove puoi vederti diverso, altri te stesso, colla faccia da mostro o persino senza testa.
E uno di questi portali dev'essere lì, su quella piazza in cui atterro col piede sinistro, dal volo alla Terra.
Ho una vaga reminiscenza di esser stato sul Sole, dove per consuetudine plurimillenaria vengono esiliati gli dei, sacrificati dall'uomo a servir da lampada e stufa. Di fronte a me vedo un signore di mezza età, grassoccio, coi baffi biondi ed elegantemente abbigliato in un completo verde, ed io lo riconosco come Gesù Cristo e so di averlo aiutato ad evadere dalla sua prigione solare, spedito lì da Gerusalemme duemila anni or sono a bordo di un'astronave a forma di croce; uno di quelli, molti volontari, ma altri no, che avrebbero illuminato l'umanità.
Sono ancora in volo colla gamba sinistra tesa nell'aria, con il mondo che lentamente si materializza intorno a me ma ancora non può assorbirmi colle sue urgenze, l'unica cosa che vedo chiaramente é il Signore in verde lì davanti, e so che l'esser stato complice della sua evasione, è stato indispensabile per la mia.
Con la delicatezza propria della danza il mio piede sinistro tocca il suolo della città: alla mia destra c'è un chiosco per la banda, ma alla mia sinistra, fra me e le aiuole fiorite, c'è un poliziotto. Qui bisogna comportarsi bene, rigare diritto insomma, ricordo quando, anni fa, la polizia mi fermò proprio in questa città perché, rischiando di far tardi ad un invito a pranzo, stavo correndo sulla pubblica strada, ed il mio atteggiamento parve loro sospetto.
- Non fare Tarzan in istrada, che ci conoscono - mi ammoniva sempre un amico, ora misteriosamente scomparso, che da dieci anni era trapiantato qui.
Lo sbirro dev'essere di un corpo tosto, ché ha un giubbotto in pelle nera. Non pare sorpreso nel vedermi apparire, però mi guarda, e così, quando solo la punta di un piede ha toccato il suolo,già mi sento nei guai. Non dev'esser molto normale, e non turbativo dell'ordine pubblico saltar fuori dal nulla, e mi preoccupo.
Non voglio esser ripreso proprio sulla porta come quella volta in cui stavo sognando di evadere da Auschwitz in uniforme grigia da ufficiale nazista, stirata di fresco, appena fuori dall'orribile cancello colla scritta "ARBEIT MACHT FREI" già alle mie spalle ed ecco che arriva un mio grasso "collega" nazi con un enorme doberman color caffè al guinzaglio, ed io, stolto, al digrignare delle sue zanne:
- bello, il cane - dico, in italiano! ed il sogno, vero come è vero che spesso sognavo galere di tutti i generi, vero come è vero tutto ciò che sto scrivendo, si conclude col ghigno porcino del bavarese, già colla promozione a sergente in tasca.
No, stavolta non ho spazio per errori, e così mi guardo intorno alla ricerca di qualsiasi cosa possa giustificare la mia presenza qui, ma non vedo nulla di significativo, è notte, ed i rari passanti sono lontani, ci siamo solo io, in arrivo, ed il poliziotto, stazionario. Sono all'erta, ma tranquillo, pronto persino a reagire colla violenza al primo segnale del concretizzarsi del pericolo, mi sento forte, lo sbirro è più piccolo di me e ciò mi da sicurezza. Da ultimo, mi guardo alle spalle, a destra, poi a sinistra e lì sulla linea chiosco, io, poliziotto, aiuola, fra me e lo sbirro appare una brunetta.
Pare una segretaria, o forse è una studentessa che si affretta a tornare a casa dall'ultimo corso serale, ticchettanti i tacchetti sul selciato, è proprio carina nel suo tallerino azzurro da cui spunta una camicetta di pizzo bianco annodato da un fiocco blu mare intorno al suo collo delicato, cartellina sottobraccio, piccolina, ma dai suoi occhi neri sprizza un'energia che mi da forza. Il fatto è che anche quei suoi piedi così diversi dai miei toccano terra provenienti dal nulla.
- Vedi, è facile! basta fare così, e siamo già arrivati - e glielo dico a voce alta, per far sì che possa sentire anche il tutore dell'ordine.
Un sorriso è la silenziosa risposta della ragazza che, per nulla imbarazzata, continua il cammino verso le sue faccende, a passi corti, ma ravvicinati e frettolosi.
Lo sbirro continua a puntarmi, ma ora un lampo di complicità brilla nel suo sguardo maschile che dice :
- Ma dai, a chi vuoi darla a bere! tanto lo so che, colla scusa di insegnarle il volo spaziale, tu poi le allieve... te le scopi... -
Sono salvo, atterraggio eseguito, ed anch'io m'incammino veloce fra i viali alberati.
Rodolfo de Matteis - 2001
BOCA CALCINADA (2009) improvvisazione a Città del Messico di: (in ordine di apparizione)
Rafael Solís Rodolfo de Matteis Helios Beltrán Elisa Hiatzi
Musica : Michael Gira - Little Mouth Video : Erick Diego