Dal Giardino alle Scale,

in Discesa

(2001)

Venivo dal mio rifugio,
fitta macchia di vegetazione
proprio in mezzo alla città
eppur nascosta; stretto fra le case
il giardino sporco e selvaggio
(lunghe liane calanti dagli alberi
rendono difficile il procedere)
teatro delle mie pratiche proibite,
dei miei colloqui con gl’alleati,
gran pere di coca ed ero,
col cui aiuto anche quel giorno
strappai la maglia della realtà
allungando lo sguardo sin lì
dove ai più non è concesso:
mostri deformi, strani ibridi, grifoni,
demoni e cavalieri in armi
furono i miei compagni.
Insieme formavamo un cerchio
antico come il mondo,
ma pieno del dolore
la strana compagnia comunicava
affogata com’era dalla nostalgia
e dal folle silenzio urlante
quelle inenarrabili torture
di cui ero carnefice eppur vittima.


Gonfio e tronfio delle mie abilità
me ne andavo per le scale di roccia
che uniscono il mio rifugio al vicolo
dove la città si arrampicò chissà quando
nel vano tentativo di contendere
qualche pollice in più a quel giardino.
Passato il confine
già camminavo sul cemento
in cui di repente si trasformano
le scale, e lì sulla mia destra
lo vedo, o meglio mi vedo:
ché son’io, in carne ed ossa!
quel rottame d’uomo che disperato
si strappa i capelli e piange
contro tutta questa responsabilità
urlando ai muri:  non la voglio!


Ma con una smorfia di scherno
continuai la mia discesa
insultando pure il meschino
fiero io che i suoi problemi
non fossero anche i miei.

Un anno è passato
e la mia vita segue
uguale solo in apparenza
ché giorno dopo giorno la disperazione
insinua i suoi tentacoli nel mio spirito.
L’alleata coca pretende sempre più da me
ma non riesce a darmi ancora ciò per cui
ogni giorno di nuovo stringo il patto
e parla, parla e parla nella mia testa.
Colla sua logica perversa imita
le voci delle persone a me più care
e delle presenze con cui amo comunicare.


Già non più maestose visioni cosmiche,
già non più i miei discorsi sorprendono
attente assemblee planetarie,
già non più gli angeli volteggiano su di me,
già non più le mie doti vengono utilizzate
per risolvere crisi galattiche;
e mi trascino stanco, paranoico e di fretta
spinto solo dal bisogno del pane e del vino
in un meschino mondo di demoni e dannati.


Seppur ben conscio del pericolo
mi sparo un mezzo grammo qui
seduto sul gradino di cemento
nelle vicinanze di quelle case
ove si annidano oscure presenze
(non grandiosi maestri dell’ombra,
ma fattucchieri da quattro soldi
che vendettero l’anima per quel potere
che ora devono scippare ai passanti)
È troppo, è troppo! È veramente troppo!


Mi strappo i capelli e,
noncurante del risvegliare il vicinato
in quella notte buia e senza luna
alla luce malata di un lampione
grido, grido e grido
alle potenze la mia disperazione,
la mia stanchezza, la mia estraneità
a quella lotta che non ha più un senso
di cui non posso più sopportare
la responsabilità.


La parola esplode, inattesa,
come un’atomica nella mia testa
le lacrime si seccano sul mio volto
per lasciar spazio a brividi di terrore
e non ho il coraggio nemmeno di pensare
a girarmi indietro per vedere me stesso,
gonfio e tronfio,
disprezzare la mia debolezza.